Riforme, maglia nera per l’Italia rispetto all’Europa

[custom_frame_center shadow=”on”]Imprese in crisi Italia[/custom_frame_center]

Sono ormai innumerevoli le classifiche nelle quali il nostro paese è declassato agli ultimi posti rispetto a quelli europei. Le ragioni sono tante. Scarsa competitività, alto costo del lavoro, burocrazia asfissiante, crescita ai minimi storici, e molto altro ancora. Un ‘primato’ tutto italiano che rischia di far implodere il paese, e di tagliarlo fuori dall’Europa.

L’Italia in numeri

La competitività, fondamentale in un mondo globalizzato come il nostro, passa attraverso innovazione, investimenti su risorse umane ed economiche, formazione di manodopera qualificata, rapido adattamento ai cambiamenti dei sistemi organizzativi e produttivi. L’Italia, da questo punto di vista, è invece piombata da oltre dieci anni agli ultimi posti della classifica europea della crescita economica, per crollare ancora più in basso in quella mondiale.
In primis, è l’indice IW 2013 a fare il punto della situazione. Su cinquanta paesi, il nostro è al trentaquattresimo posto per qualità, insieme a Grecia, Portogallo, Turchia, India, Messico e Sudafrica, ed al quarantesimo per velocità di recupero. Sulle diciassette nazioni dell’euro, più la Svezia, la Gran Bretagna e la Polonia, il belpaese è addirittura ultimo per crescita tendenziale e costi del lavoro, penultimo per iperregolamentazione dei mercati, diciottesimo per competitività, tassi di occupazione, elasticità delle pratiche di assunzione e licenziamento. Otteniamo gli ultimi posti in classifica anche per la valorizzazione del capitale umano.

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Gli sbagli dell’Italia

Secondo Holger Schmieding, capo economista della banca Berenberg e autore dell’ultimo rapporto EuroPlus Monitor, pubblicato in dicembre a Bruxelles,

le riforme in Italia sono cominciate più tardi senza raggiungere per ora intensità e ambizioni di quelle di Grecia e paesi iberici. Per questo la competitività non è migliorata, l’export sta facendo un pò meglio ma i costi del lavoro e l’eccesso di regolamentazione per prodotti e servizi si sono ulteriormente deteriorati.

E la miopia della classe dirigente del nostro paese in questo senso sembra non accennare a diminuire. Perché la competitività, che evidentemente manca all’Italia, non potrà essere raggiunta continuando a tagliare i salari, bassi quanto la produttività, ma lavorando sulla crescita e sulle riforme, rendendo meno intricata la giungla legislativa, alleggerendo la burocrazia e semplificando il sistema fiscale. A parlare, ancora una volta, possono essere solo i numeri. In Italia, il costo degli adempimenti amministrativi per le imprese supera i 27 miliardi l’anno, l’avvio di un’attività imprenditoriale nuova 2.100 euro (contro una media Ue di 370), l’ottenimento di una licenza richiede mediamente 234 giorni, e la presentazione della dichiarazione dei redditi oltre 250 ore. La spesa pubblica, che in buona parte dei paesi europei più a rischio è stata ridotta negli ultimi cinque anni (tra gli altri, in Grecia per 29 miliardi, in Irlanda per 5.5, in Portogallo per 2.9, e in Spagna per 9.1), nel nostro paese è addirittura aumentata di 12.5 miliardi, portandola poco sopra i 664 miliardi.
Investire, a queste condizioni, è inevitabilmente un rischio. Uno studio recente della direzione Ecfin ha concluso che diminuendo i costi d’avvio delle nuove imprese, spostando dal lavoro la pressione fiscale, e aumentando il tasso di partecipazione al lavoro, l’Italia in cinque anni potrebbe veder salire il proprio pil dell’1.9%, ed in dieci addirittura del 4.6%.

Simona Di Michele

Fonti Il Sole 24 Ore