L’Italia è in piena desertificazione industriale. La recessione e la mancanza di una politica industriale organica stanno modificando il volto della produzione. Come sottolineato dal centro studi di Confindustria, “la politica industriale”, nel nostro paese, “è ancora assente”. A mancare, secondo quanto conferma il centro studi, sono “piani strategici, di medio-lungo periodo, che passano anche attraverso l’individuazione selettiva di aree di intervento ritenute chiave per la crescita”.
Manifattura prima vittima della crisi industriale
La manifattura, settore strategico e identitario per l’Italia, è anche uno di quelli più a rischio. Se, secondo un’analisi condotta da Mediobanca, nel 2003 l’indice di fatturato era pari a 100, e nel 2008 aveva raggiunto i 130.4 punti, negli anni a seguire si è registrato un tracollo netto, che è passato dai 122.8 punti del 2012, alla previsione di 118.2 punti per il 2013. E il crollo c’è stato sia per i grandi gruppi (118.1 punti nel 2012), sia per le imprese medio-grandi (123.3 punti nel 2012). Secondo quanto riportato da Mediobanca, le imprese italiane hanno preferito conservare le loro attività, e dunque i ricavi, anche a scapito della redditività.
Gli effetti della crisi industriale
L’industria rappresenta un quinto del valore aggiunto nazionale, in particolare l’80% dell’export. Ma, mentre sui mercati esteri la presenza italiana si fa sentire, la produzione interna al paese rischia grosso, il che crea una dicotomia che, a lungo termine, si farà sempre più insostenibile. Un dato di fatto che si registra dal 2012, quando l’indice del fatturato nazionale ha raggiunto i 95 punti, mentre quello estero superava i 110. Il problema, insomma, è strutturale. E lo si vede ancora una volta a confronto con l’Europa. Secondo un’analisi del Ceris-Cnr su dati Eurostat, quando nel 2008 l’Italia era a 119 di fatturato nazionale, la Germania e la Francia erano rispettivamente a 118 e a 108. La situazione, adesso, si è ribaltata, portando i due concorrenti europei intorno a quota 110, mentre il nostro paese è rimasto inchiodato sui 90 punti. Come se non bastasse, secondo le previsioni di Nomisma, la spada di Damocle è la perdita di un quinto della produttività italiana che, determinata dalla recente recessione, rischia di trasformarsi in un vero e proprio fenomeno strutturale.
[b_cciaa_indagini]Uno sguardo all’estero
A fare la differenza, nel confronto con l’estero, sono anche e soprattutto le politiche industriali adottate. Se, come ha sottolineato Confindustria, in Germania sono presenti da anni enti pubblici votati a facilitare la diffusione e la commercializzazione delle innovazioni, sostenuti da un recente finanziamento che ha permesso la nascita di quindici distretti tecnologici, in Francia si prevedono ventiquattro piani industriali nel settore manifatturiero, e si è garantiti dalla banca pubblica degli investimenti.
Sono poi i grandi gruppi a tenere testa nel mondo industriale, orientando le scelte, trattenendo le quote maggiori di valore aggiunto, e selezionando la fornitura. Ma i nomi importanti in Italia (Telecom, Finmeccanica o Ilva, solo per citarne alcuni), privati di una policy organica e duratura, sembrano ormai appesi ad un destino incerto, e rischiano di segnare la fine del paradigma della grande impresa italiana.
Simona Di Michele
Fonti Il Sole 24 Ore